Mi chiamo Patrizia, sono una persona con disabilità fisica. Sono affetta da tetraparesi spastica causata da una paralisi cerebrale infantile dopo un parto prolungato. La tetraparesi spastica comporta un deficit motorio in tutti quattro gli arti, e un disturbo del linguaggio chiamato disartria (problema dovuto a un’alterazione del funzionamento dei muscoli deputati alla fonazione e all’articolazione del linguaggio). Inoltre soffro di epilessia, ora controllata farmacologicamenteCon questa disabilità fisica è stato difficile affrontare le varie fasi evolutive come infanzia, adolescenza, età adulta, perché ho incontrato varie difficoltà, ma in tutte il problema dominante è stato quello dell’integrazione.

Quando iniziai a frequentare la scuola materna, mi trovai con un’insegnante non preparata all’inserimento di bambini con disabilità e visto che allora camminavo solo con un appoggio, quando provavo ad alzarmi in piedi per andare a giocare con gli altri bambini, l’insegnante, invece di aiutarmi, mi urlava perché rischiavo di cadere e quando parlavo, diceva che non si capiva niente ed io piangevo perché essendo troppo piccola non mi rendevo conto della mia diversità rispetto agli altri bambini. Nonostante avessi solo tre anni, me lo ricordo benissimo. I miei genitori, venuti a conoscenza del fatto, mi trasferirono in un’altra scuola materna. Qui mi trovai bene, ero in una classe con molti bambini, le insegnanti presero in considerazione la mia situazione e, nonostante i miei deficit, mi coinvolsero quando era possibile, nelle attività comuni, riuscii quindi a stringere amicizie con i coetanei. All’età di sei anni iniziai la scuola elementare, trovai insegnanti consapevoli delle mie difficoltà che mi aiutarono a inserirmi bene nella classe, facendomi partecipe delle varie attività scolastiche cosa che io facevo con piacere perché era quello che facevano gli altri bambini che oltretutto mi aiutavano quando ero in difficoltà. Per me non vollero nemmeno l’insegnante di sostegno, anche se riflettendoci ora, in certe situazioni, mi poteva essere di aiuto. Mi trattavano come gli altri bambini, lodata quando ottenevo buoni risultati e sgridata quando non m’impegnavo abbastanza o disturbavo le lezioni. A volte, le giudicavo troppo severe, ma ora sono contenta del loro comportamento nei miei confronti perché penso che altrimenti non avrei raggiunto certi traguardi in futuro. Terminata la Scuola Elementare, passai alla Scuola Media. Qui mi trovai bene con i compagni e gli insegnanti, ma in difficoltà con l’insegnante di sostegno, con la quale durante il primo anno, non istaurai un buon rapporto perché non accettavo il suo aiuto. Quando poi mi fecero capire dove poteva aiutarmi, il rapporto tra me e lei migliorò. In terza media, quando arrivò il momento di decidere quale scuola superiore frequentare, attraversai un periodo molto difficile. Gli insegnanti mi dissero che avevo buone capacità e tanta volontà ma mi consigliarono la Scuola Professionale: io non ero per niente soddisfatta perché desideravo frequentare l’Istituto Magistrale, ma fui assillata dalle critiche e quasi tutti mi scoraggiavano. Invece, io sognavo, per il futuro, addirittura di iscrivermi all’Università perché mi piaceva molto studiare. Avevo avuto come esempio un mio conoscente, paraplegico, che nonostante fosse finito in carrozzella dopo un incidente stradale, aveva ripreso a studiare e da Pinerolo (in provincia di Torino), dove abitava, con la sua automobile adattata, veniva a Urbino a frequentare l’Università. Io l’ho sempre ammirato e l’ho preso come modello da seguire. Al mio insegnante di educazione fisica, avevo confidato il desiderio di proseguire gli studi all’Istituto Magistrale e all’Università. Lui fiducioso della mia riuscita ne parlò con i colleghi, che mi giudicarono troppo ambiziosa così miei genitori, m’invitarono a seguire il consiglio dato dalla maggior parte degli insegnanti, ossia frequentare la Scuola Professionale. Ero molto dispiaciuta per questa non scelta, ma ho dovuto ubbidire. Quando mi presentai alla Scuola Professionale per l’iscrizione, un insegnante senza nemmeno darmi il tempo di spiegare le mie caratteristiche, mi giudicò e mi disse che la scuola non faceva per me. Dopo quest’umiliante episodio, non mi ritirai e iniziai a frequentare le lezioni. Ebbi una grande rivincita quando all’esame finale presi il voto più alto della classe proprio nella materia che insegnava quell’insegnante. Nel 1990, che chiamo l’anno della svolta, venni a conoscenza tramite il mio istruttore di nuoto, che a Urbino veniva aperto un Centro Socio-Educativo per diversamente abili. Accettai subito di entrarne a farne parte come allieva. Mi trovai immediatamente bene sia con gli educatori che con compagni perché erano persone senza pregiudizi, che valorizzavano la mia persona, soprattutto il responsabile si rese subito conto delle mie capacità, oltre che dei miei deficit. A lui espressi il desiderio di voler riprendere a studiare all’Istituto Magistrale come mia sorella, per poi proseguire all’Università. Fui compresa e incoraggiata e feci i primi due anni da privatista all’Istituto Magistrale. Avevo molta paura di non farcela e fallire ma tutto andò bene. Decisi così di proseguire gli studi andando a frequentare i restanti anni e furono anni veramente faticosi sia per la difficoltà a inserirmi nella classe (e non riuscii totalmente), sia perché mi mancavano gli amici del Centro Socio-Educativo “Francesca”. Anche all’Istituto Magistrale ho incontrato qualche insegnante con pregiudizi, ma la maggior parte di essi m’incoraggiò a non mollare. In questi anni, non nascondo, ci sono stati momenti di sconforto, avrei buttato tutto all’aria, ma con tenacia e desiderio di concludere, sono arrivata all’esame di maturità e cosi il tanto sospirato diploma fu conseguito. Subito mi prefissi l’obiettivo della laurea. Mi iscrissi all’Università presso il corso di laurea di Scienze dell’Educazione il primo giorno in cui si aprivano le iscrizioni, il 5 agosto per evitare che qualcuno me lo impedisse. Ero veramente decisa e il 5 novembre iniziai a frequentare le lezioni e fui subito contenta della mia scelta. Il periodo in cui ho frequentato l’università è stato veramente stimolante perché mi ha permesso, di acquisire delle nozioni, ma anche di stringere forti amicizie che tuttora sono importanti. Vorrei sottolineare che, all’università non ho trovato persone con pregiudizi e questo è stato molto positivo per affrontare le difficoltà. Contemporaneamente ho continuato a frequentare il Centro Socio-Educativo “Francesca” perché era ed è un punto di riferimento importante e sinceramente se ho ripreso a studiare lo devo proprio al responsabile e agli educatori che mi hanno sempre incoraggiato a continuare e a non arrendermi. Ricordo con tanta emozione il giorno della mia laurea perché è stato un traguardo raggiunto con tanta fatica. Dopo questa fase ho attraversato un anno molto difficile perché sono sorti problemi sia fisici che psicologici dovuti a un forte stress, con crisi epilettiche e crisi di ansia. Ora sto bene e svolgo un lavoro che mi piace: sono impiegata presso il Centro Socio-Educativo “Francesca” di Urbino.
Il diversamente abile e il normodotato
La persona diversamente abile è colei che possiede abilità diverse rispetto ai normodotati. Prima era denominata persona portatrice di handicap ed erano messi in evidenza soprattutto i suoi deficit e meno le sue capacità: questo ha fatto sì che le persone “normali” considerassero quelle diversamente abili incapaci di ottenere successi e destinate a fallire in ogni tentativo di emergere. Così non sono, perché, grazie ad appositi accorgimenti, anche se con ritardo e con percorsi più difficili, si riescono a raggiungere determinati obiettivi. Questo è importante perché, primo è una sfida con se stessi e secondo perché ci permette di ottenere la dignità che ciascuna persona ha diritto di avere. Io penso che noi diversamente abili abbiamo bisogno, prima di tutto, di sentirci accettati dagli altri perché ciò aiuta ad accettarci. Personalmente è stato un percorso molto difficile e dico con sincerità che ancora oggi non ci sono riuscita completamente. Comunque quando sono con persone che mi considerano in base alle mie capacità, mi sento più sicura di me e interagisco volentieri con gli altri, mentre quando vedo che non sono considerata oppure sono derisa per tutto ciò che dico e faccio, la mia reazione è chiudermi in me stessa e tendere ad autocriticarmi.
La persona diversamente abile come percepisce se stesso?
Noi diversamente abili, quando siamo soli con noi stessi, (perlomeno io), a volte ci dimentichiamo di essere disabili. E’ un momento bellissimo perché non ti senti quell’etichetta che ti condiziona la vita quotidiana. Comunque, questa condizione la si può provare anche quando sei in compagnia di persone con le quali hai un rapporto affettivo forte: ad esempio, a me capita quando sono in compagnia della mia famiglia e con gli amici più cari. In particolare con il mio ex-istruttore di nuoto, ora grande amico, perché lui mi elogia quando faccio qualcosa di buono e mi dice, tranquillamente, dove sbaglio e dove mi devo correggere. Che bello sarebbe se tutti i normodotati si comportassero come lui!! Invece ci sono persone che hanno paura di ferirci e non ci correggono se sbagliamo qualcosa, ma dicono: <<E’ disabile>>. Quell’etichetta giustifica lo sbaglio e il pregiudizio rimane. Il pregiudizio solitamente si manifesta in due modi:
1.      Le persone non ti considerano affatto, qualunque cosa dici o fai, non vieni preso in considerazione;
2.       Le persone ti deridono e ti fanno capire che quello che fai o dici è banale e ridicolo.
Io in questa situazione mi ci trovo spesso nella vita di tutti i giorni, quando mi reco a fare le commissioni per il lavoro, perché vedendo le mie difficoltà motorie, disturbi di linguaggio e il mio tremore dovuto alla distonia, le capacità intellettive, in un primo momento, non sono per niente considerata. Ora che a Urbino, città in cui lavoro, molti mi conoscono e sanno quali sono le mie capacità e difficoltà i pregiudizi si sono ridotti. L’atteggiamento compassionevole di chi si rivolge a me con una comunicazione elementare, con una gestualità infantile, con domande sciocche, come se non fossi in grado di comprendere ciò che mi è detto o chiesto, mi dà molto fastidio e solitamente rispondo in modo tale che le persone si rendano conto delle mie reali capacità intellettive. Ma non voglio generalizzare, la società di oggi è più preparata a porsi in maniera adeguata alla persona diversamente abile e soprattutto le nuove generazioni sono più aperte a conoscere e capire il diverso. Basti pensare che in passato il disabile era escluso dalla società, dalla scuola primaria, non erano previsti aiuti come l’insegnante di sostegno e non esisteva nessun tipo di servizio come ad esempio i servizi socio-educativi che hanno come scopo principale quello di migliorare la qualità della vita e dare sollievo e sostegno alle famiglie.
L’integrazione scolastica e sociale del diversamente abile
In ogni stadio della vita il diversamente abile e la sua famiglia devono combattere per far valere il diritto all’integrazione. Questa lotta inizia dai primi anni di scuola fino all’inserimento nel mondo del lavoro.
Il diversamente abile dopo la scuola dell’obbligo
Da qualche decennio si sono istituiti, dopo la scuola dell’obbligo, centri socio-educativi o diurni dove i ragazzi diversamente abili, svolgono varie attività ed esperienze adeguate alle proprie caratteristiche che sono di aiuto per accrescere le varie abilità e integrarsi nell’ambiente sociale in cui vive. L’intervento educativo è solitamente programmato e individualizzato affinché sia finalizzato al potenziamento delle capacità specifiche della persona diversamente abile, mentre nel caso di handicap grave lo scopo principale è quello di lavorare affinché le poche potenzialità che ha acquisito rimangano e, se anziano, contenere il deterioramento cognitivo. Questi servizi dispongono di determinate figure professionali, come pedagogisti, psicologi, educatori che programmano il tutto.
L’inserimento lavorativo del diversamente abile
Per i soggetti diversamente abili che hanno buone capacità, si può pensare all’inserimento lavorativo. E’ preferibile, per lo meno in un primo momento, offrire ambienti cosiddetti protetti come cooperative sociali di tipo B. Ci tengo a sottolineare che anche l’inserimento lavorativo deve avvenire con la supervisione di figure professionali quali psicologi, assistenti sociali, ecc., soprattutto nel primo periodo. Il mio primo lavoro fu presso una cooperativa sociale che aveva in gestione una piscina ed io ero alla cassa. Inizialmente ero entusiasta, ma subito incominciarono i problemi in quanto molti normodotati non si fidavano del lavoro che io svolgevo. Mi dicevano esplicitamente che non volevano pagare a me l’ingresso e dovevo chiamare qualcun’altro al mio posto. Sicuramente il sentire come parlavo e vedere come mi muovevo faceva scatenare il pregiudizio. Quando mi trovavo in queste situazioni perdevo quella poca autostima che avevo e ogni giorno era per me una sofferenza recarmi al lavoro perché non mi sentivo apprezzata. Ma sono contenta in ogni modo di aver fatto questa esperienza perché ho capito che per la mia disabilità e il mio carattere non è adatto un lavoro al pubblico, ma uno dietro le quinte. Ora lavoro, come ho detto prima, presso il Centro Socio-Educativo “Francesca” in qualità di impiegata e mi sento gratificata sotto tutti gli aspetti. Sono considerata per ciò che sono e questo per me è molto importante.
Il diversamente abile e la famiglia
La nascita di un bambino suscita nella famiglia felicità, ma se il bambino è diversamente abile ci si sente smarriti e si prova un senso di impotenza per la situazione che non si può cambiare. I genitori inizialmente tendono a non crederci e sperano che la diagnosi che è stata fatta sia sbagliata, dopodiché inizia il <<pellegrinaggio>> dai vari specialisti (neuropsichiatri infantili, terapisti, psicologi, ecc.), e quando si ha una diagnosi certa i genitori entrano inizialmente, in depressione. Dopodiché inizia la fase della riabilitazione dove i genitori si aspettano tanto, ma, a volte, i miglioramenti non si vedono e questo porta alla disperazione. Solitamente i genitori verso il figlio diversamente abile assumono un comportamento iperprotettivo e/o provano vergogna o rabbia. I miei genitori hanno la tendenza ad assumere un comportamento iperprotettivo: hanno sempre paura che mi succede qualcosa, ma questo a me provoca ansia perché le loro paure le trasmettono anche a me. Durante l’adolescenza, volevo svolgere la vita che svolgevano i miei coetanei, mentre per me non era tutto possibile e di conseguenza iniziarono le prime discussioni in famiglia. E’ proprio in questo periodo che ti rendi conto che sei diversa e ti senti cadere il mondo addosso. Inoltre, mi ricordo che proprio nel periodo dell’adolescenza iniziai a chiedere ai miei genitori, soprattutto a mia madre, il perché di questa mia disabilità e la maggior parte delle volte rimanevo senza risposta perchè cambiava discorso. Poi mi documentai da sola, attraverso i reperti medici (di nascosto da tutti naturalmente e quando non conoscevo i termini li cercavo in un piccolo dizionario che avevo), e all’età di circa 12 anni conoscevo bene il mio quadro clinico. Quando ho scoperto che la causa è stata la negligenza dei medici ho provato tanta rabbia. Oltre ai genitori iperprotettivi, ci sono genitori che provano anche un sentimento di vergogna rispetto al proprio figlio diversamente abile. Secondo me, la vergogna è maggiore se la disabilità del figlio si nota fisicamente. Inoltre, i genitori, quando vi è un figlio diversamente abile, hanno difficoltà a gestire il rapporto tra loro, il figlio normodotato e quello diversamente abile. Generalmente i genitori rivolgono molte attenzioni al figlio diversamente abile, di conseguenza quello normodotato si sente trascurato dai genitori ed è geloso. Ad esempio, io ho una sorella di tre anni più piccola di me e durante l’infanzia non riusciva a capire perché lei eseguiva alcune azioni quotidiane da sola (ad esempio, mangiare, vestirsi, lavarsi, ecc.) ed io invece ero aiutata. Era talmente gelosa che quando mi avvicinavo a lei, reagiva dandomi graffi, morsi, ecc. Ora che è diventata mamma vive la mia disabilità in modo diverso: invece di vergognarsi, è orgogliosa di me e afferma che è contenta di avermi come sorella. Per concludere affermo che la famiglia, per il diversamente abile, è il fulcro più importante ed è bene che sia di aiuto al soggetto per inserirsi nella società.
Il diversamente abile e i suoi coetanei
Essendo l’adolescenza uno stadio della vita in cui i cambiamenti sia fisici che psicologici non sono indifferenti ai soggetti normodotati, per il diversamente abile, con disabilità motoria, l’adolescenza rappresenta un periodo della vita molto difficile, il gruppo dei coetanei diventa, un punto di riferimento importante, ma non sempre si è accettati, questo porta a ritenersi inferiore, cala la propria autostima, non ci si sente capaci di stringere amicizie e ci si sente esclusi. L’adolescenza per me è stato un periodo molto difficile. Con i coetanei non riuscivo a stringere forti amicizie perché essi conducevano una vita diversa dalla mia, tipo uscivano senza genitori, guidavano il motorino, ecc., cose che avrei voluto fare anch’io, ma che non potevo a causa della mia disabilità. Di conseguenza, non mi permettevano di entrare a far parte del gruppo, ora, invece, che sono adulta hanno un comportamento opposto e sono passati da una scarsa considerazione ad un forte interesse nei miei confronti. Purtroppo, ci sono persone in cui questo mutamento non avviene e rimangono con i loro pregiudizi per tutta la vita. Preferisco la mia disabilità, ai loro pregiudizi.